Riportiamo l’intervento di Mons. Vescovo Valerio Lazzeri all’inaugurazione della mostra “L’abbraccio del Pallium. La Misericordia e la cura” avvenuta venerdì 10 febbraio a Massagno.

Carissimi amici, vorrei anzitutto esprimere una parola di vivo compiacimento e di riconoscenza per tutti coloro che hanno avuto l’iniziativa di questo evento e si sono impegnati perché fosse riproposta anche nella nostra diocesi la mostra che siamo qui oggi a inaugurare. Essa ci introduce in una maniera originale e, a mio avviso, particolarmente efficace, in una riflessione fondamentale e – oserei dire – sempre più urgente nella fase che sta attraversando la civiltà sulla nostra capacità di custodire l’autenticamente umano nell’uomo.

Continuiamo anche nel nostro tempo, come in ogni epoca, a fare ogni giorno l’esperienza della fragilità del nostro corpo, della radicale vulnerabilità della nostra vita. Abbiamo molta più tecnologia a disposizione, strumenti sofisticati e sempre più efficaci nell’affrontare singoli aspetti delle nostre infermità fisiche e psichiche. Questo non ci impedisce di essere confrontati con l’invecchiamento, con la malattia nostra e di chi ci sta accanto. E come sempre è accaduto, questo interpella profondamente l’insopprimibile desiderio di senso, di felicità e di pienezza di vita che continuiamo a trovare nel profondo del nostro cuore.

La cultura e la religione, in ogni tempo e luogo, hanno cercato di fornire agli esseri umani degli strumenti per gestire la tensione provocata da una sete insaziabile di vita in un corpo e una psiche segnati dal limite. Da sempre si è cercato il modo di alleviare la sofferenza, propria o altrui, in tutte le sue forme. Da una parte, i rimedi e le tecniche per riottenere la salute e rimettere il corpo o la psiche in accordo con l’anelito del cuore; dall’altra, gli ausili del pensiero, della filosofia, le consolazioni dello spirito per giungere a poco a poco alla rassegnazione, all’accettazione della caducità e della mortalità di questa esistenza.

Il vertice di questo sforzo consolatorio nell’antichità è stata l’affermazione dell’immortalità dell’anima, della parte puramente spirituale dell’essere umano, nella quale occorreva concentrare a un dato punto tutte le proprie aspettative di sopravvivenza. Il corpo umano, nonostante tutte le cure, prima o poi, non può evitare il deperimento e la dissoluzione. Quel che rimane è la parte immateriale ed eterna che ritrova la sua verità ultima dopo la morte.

La speranza cristiana, pur trovando qualche elemento di tangenza con questo spiritualismo antico, non ha mai potuto accontentarsi. L’incontro con Cristo, il Vivente, il Risorto dai morti nella sua vera carne non è rimandato al futuro escatologico. È reale, nella fede, prima della morte. Questo evento di grazia, la densità della relazione che Gesù stabilisce con chiunque si lascia raggiungere dalla sua proposta di salvezza, coinvolge tutto l’essere umano, compreso il suo corpo, destinato quanto l’anima alla gloria.

Il cristianesimo non ha così inventato la medicina. Ha però introdotto nella civiltà umana una nuova consapevolezza: quella della cura della persona, un’esigenza di sguardo, di accoglienza, di abbraccio, che scaturisce dal nucleo stesso della rivelazione di Dio in Gesù Cristo: se per salvare l’umanità non può bastare meno del sangue di un Dio Crocifisso, allora ogni singolo volto, nome, corpo è degno di una cura infinita, unificante, integrale, dal primo istante del suo concepimento fino al suo ultimo respiro.

A partire dall’esperienza del nostro essere curati e guariti da Dio in Cristo, noi sappiamo che la prima attenzione che dobbiamo gli uni agli altri è quella dell’offerta di uno spazio incondizionato e gratuito di tenerezza che fa vivere, fuori da ogni tristezza, vergogna, colpa o risentimento. Ogni essere umano, e in primo luogo il più fragile, deve essere aiutato in tutti i modi a non cedere all’impressione che l’insaziabile aspirazione alla vita, al compimento, alla felicità che si trova dentro sia un inganno e un’illusione. Detto in positivo, occorre aiutare a rendersi conto che qualcosa dentro di noi attende di poter dire di sì, senza condizione, a Chi ci ha chiamato all’esistenza.

L’esposizione che abbiamo l’occasione di vedere mi sembra un aiuto prezioso a sviluppare questo genere di riflessione. Ci aiuta in un primo tempo a prendere coscienza della problematica complessa della cura a partire dalle premesse storiche che ci hanno portato alla situazione odierna. Ci mette a contatto con una figura esemplare come quella di Cicely Saunders che ci ricorda quanto la fede cristiana riesca a essere creativa in questo ambito. E poi ci immerge in un suggestivo percorso iconografico attraverso il simbolo del pallio e del mantello.

Mi auguro davvero che sia visitata da molte persone e che aiuti tutti a fermarsi nella corsa forsennata alla ricerca di una salute che non sia anche salvezza di tutto l’uomo. Quando stiamo male ci basta poter toccare il lembo del mantello di Gesù per essere guariti, cerchiamo qualcosa che ci faccia stare bene, ma Colui che ci ama cerca il nostro volto perché non vuole soltanto guarirci e farci ridiventare come eravamo prima, ma vuole farci camminare verso la meraviglia che non siamo ancora.