È boom per la diagnosi preimpianto (DPI) degli embrioni in Cina. Dopo la rimozione del divieto del figlio unico, l’accesso alla fecondazione artificiale è aumentato velocemente e ha trascinato con sé la DPI, cioè la procedura che consente di analizzare il Dna dell’embrione in vitro – con solo qualche giorno di vita –, per individuare quelli eventualmente affetti da mutazioni genetiche collegate a patologie, e scartarli, trasferendo in utero solo quelli sani. La DPI tecnicamente consiste in una biopsia dell’embrione, da cui si prelevano alcune cellule – un numero crescente man mano che l’embrione si sviluppa in vitro, una o due il secondo giorno, e ad aumentare fino al quinto – di cui poi si effettua lo studio del Dna.
Un lungo articolo appena pubblicato dalla rivista scientifica Nature (QUI L’ARTICOLO) dà numeri impressionanti: si stima che l’uso della tecnica in Cina abbia già superato quello degli Usa, e stia crescendo a una velocità cinque volte maggiore. Il Peking University Third Hospital a Pechino, per esempio, da solo ogni anno effettua più DPI dell’intero Regno Unito. Nel 2004 in tutta la Cina solo 4 centri avevano la licenza per effettuarla, ma sono già diventati 40 nel 2016. È però tutta la fecondazione in provetta che sta crescendo impetuosamente: la clinica più grande, il Reproductive and Genetic Hospital Citic-Xiangya di Changsha, lo scorso anno da sola ha registrato 41mila procedure di fecondazione.
In Cina non sembrano esserci resistenze all’uso della DPI: non solo manca quel retaggio culturale occidentale, dove ‘eugenetica’ è ancora parola maledetta, ma al contrario il termine cinese che la traduce,yousheng, ha un’accezione positiva nel contesto della DPI, e significa far nascere un bambino migliore. Per esempio, anche non fumare durante la gravidanza fa parte dello yousheng. Insomma, «ci sono problemi etici, ma se tu elimini una malattia penso sia un bene per la società», come dice uno degli esperti citati da Nature.
La rivista scientifica Nature, ha anche evidenziato l’assenza di ogni implicazione di carattere etico sulla base dell’assunto seguito: eliminare una malattia – e con essa il malato – è vantaggioso per la società. E questo in termini puramente economici: un uomo (o una donna) che in vita potrebbe sviluppare ad esempio la fibrosi cistica costerebbe allo Stato quasi due milioni di dollari per cure varie e continue. Un potenziale malato non nato ne porterebbe via circa 60.000: il costo dell’esame prediagnostico.
Non è solo questione di distruzione di embrioni umani: è ben altro. Senza scomodare temi cari al nazismo ed alla sua teoria della purezza della razza, per restare ai giorni nostri ed alla loro connotazione mercantilistica si può parlare crudamente di scenari in cui la procreazione umana viene trasformata in processo di ottimizzazione della resa della produzione seriale di embrioni. E come davanti alle vetrine dei negozi, tutto diventa possibile: quando si ha in tasca il denaro sufficiente per l’acquisto desiderato.
Insomma, non più persone, ma merci, nell’ansia di dominare la morte, sconfiggere la malattia, scacciare la sofferenza e tenere solo il meglio, egoisticamente per sé ancor prima che per l’altro e gli altri. Peccato, però, che si dimentica che da un laboratorio potranno venir fuori tanti desideri artificiali, difficilmente amore ed affetto per un figlio.
(Avvenire / Zenit)