Silvio e Sabrina: La chemio aveva avvelenato il feto. «Invece Giovanni è sano e vispo»
Gli occhi di Silvio ridono sempre e sono la prima cosa che vedi. Poi ti accorgi delle ruote e che nell’abbracciarti resta seduto: «Ho la sclerosi multipla, me l’hanno diagnosticata a 12 anni nella forma ricaduta-recupero», quella a fasi alterne, «nel 2000 però mutata in progressiva cronica, così sono passato alle cure forti, vere bombe di chemioterapia: iniziarono a mettermi in vena tanto di quel liquido blu che scherzando coi medici dicevo che presto sarei diventato nobile». Silvio Facco, 55 anni, e sua moglie Sabrina Magni, 48, infermiera all’ospedale, si sono conosciuti da ragazzi nell’Operazione Mato Grosso, il movimento di volontariato missionario che aiuta i poveri dell’America Latina, e la malattia non ha spaventato il loro progetto d’amore. Se non che dopo anni di matrimonio una diagnosi di infertilità ha messo una pietra sopra al sogno di avere dei figli e «l’ipotesi dell’inseminazione artificiale è stata subito scartata, non volevamo forzare la mano al Signore. Abbiamo invece scelto l’adozione e portato avanti tutto il percorso, disposti ad accogliere anche più fratelli – continua Silvio –. Alla fine ci eravamo accordati con una suora di un lebbrosario in Brasile, dove tanti bambini erano abbandonati, e siamo felicemente arrivati all’ultimo colloquio con gli assistenti sociali, ma lì Sabrina si è sentita male… Non ce ne intendevamo: era solo incinta. Questa volta avevamo davvero forzato la mano del Signore – ride –, che ha detto e va bene, ve lo do questo figlio».
Avrebbero voluto proseguire comunque anche l’adozione, «ormai la gravidanza psicologica l’avevamo fatta», spiega Sabrina, ma il giudice ha deciso diversamente, «prima svezzate il vostro, poi ne riparliamo». Così nel 1997 è nato Giacomo. Poi la coppia che la medicina considerava sterile ha concepito altri due figli (abortiti spontaneamente) e in seguito Samanta, nata poco prima che la sclerosi si aggravasse e Silvio dovesse anche lasciare la cattedra alla scuola professionale. Arrivano ora le bombe di chemio e con queste il divieto assoluto di concepire… «Noi ci sentivamo già graziati dal Signore, non pretendevamo altri figli, ma nemmeno concepivamo la vita come programmabile», continua Sabrina. Giovanni è arrivato così, senza che lo cercassero, accolto come ogni bella notizia.
Il panico invece si è diffuso tra i medici, a partire dal neurologo che a fine seduta chemioterapica ha chiesto se ci fossero novità. «Stavo uscendo, ero già sulla porta e ho risposto che mia moglie era incinta. È successo di tutto. Il giorno dopo siamo stati convocati e il primario ci ha detto che non c’era scelta, dovevamo abortire perché, testuale, nostro figlio sarebbe nato certamente handicappato. Ho chiesto con quale handicap ma non mi sapeva rispondere, che percentuale di rischio c’era, e nemmeno questo si poteva dire. Alla fine di fronte alla mia testardaggine ha sperato in mia moglie, “lei in casa ha già un handicappato, ne vuole due?”, le ha detto. Era un bravo medico, cercava solo come convincerci. Alla fine ha calcato la mano, “volete davvero rischiare di mettere al mondo un mostro?”. Eravamo sconvolti, ma più lui si infervorava e più nella mente mi risuonava il salmo che dice di confidare nel Signore, non nell’uomo. La Provvidenza da una parte ti lascia tentare, dall’altra ti dà sempre gli strumenti per rispondere».
Dunque anche Giovanni ce l’ha fatta e della sua storia conosce tutto, così hanno voluto i genitori perché «ci rifletta quando sarà adulto. Occorre dare ai figli gli strumenti per capire cos’è l’aborto: molti infatti ci arrivano ingenuamente, nella fretta, nella fatica, nella paura, nel dolore».
Nei mesi della gravidanza Sabrina non ha mai fatto trapelare nulla, ma i bambini colgono tante cose e una sera Giacomo e Samanta decisero che ogni giorno avrebbero recitato a tavola un’Ave Maria per Giovanni fino alla nascita, «e da allora continuiamo a farlo anche ora che Giovanni ha 11 anni. Il nostro mostriciattolo è un mostro, sì, ma di furbizia, guai a trattarlo da bambino, l’altro giorno mi ha redarguito: papà, ma lo vuoi capire che ormai sono un preadolescente? Devono averglielo detto a scuola», ride il papà.
Che con il piede sinistro e i pedali dell’auto invertiti riesce ancora a guidare la macchina e infatti saluta per correre fuori: «Abbiamo un quarto figlio, Christian, 24 anni, rimasto senza padre da bambino. Vado a prenderlo al lavoro!».
(Avvenire)