«Quel che ferisce è ciò che nella vita vi è di ineluttabile: la sofferenza diffusa ovunque, la sofferenza degli inermi e dei deboli; la sofferenza degli animali, della creatura muta… il fatto che non si può cambiare nulla, che non si può toglierla di mezzo.Così è e così sarà. E qui sta la gravità della cosa» scrive Romano Guardini in Ritratto della malinconia.
La mostra nasce dalle grandi domande che la condizione umana, fatta di bisogno ed attesa, inevitabilmente suscita. Questioni inerenti la malattia e l’assistenza che sono state esaltate in modo significativo, più che dalla parola scritta, dallo sguardo artistico. Di qui, la scelta di valorizzare un patrimonio tanto vasto quanto poco conosciuto, attraverso le immagini relative soprattutto alla produzione degli ultimi secoli.
Nel fascino indiscusso delle opere di maestri quali Chagall, Matisse, Metsu, Picasso e Goya, Munch e Van Gogh, si intravvede una sorta di ideale filo conduttore, la documentazione di un giudizio positivo che si impone attraverso la drammaticità della condizione umana. Una positività non scontata, né deducibile dalle premesse che devono fare i conti, il più delle volte, con il fatto che il desiderio di essere guarito non trova una risposta compiuta. Le uniche guarigioni raccontate nei dipinti, infatti, sono miracoli. Spesso la scienza medica riesce solo a documentare la propria sconfitta. Ma ecco che, dentro i limiti e le miserie dell’uomo, l’occhio dell’artista diagnostica qualcosa di cui a volte gli stessi medici sono protagonisti inconsapevoli: una solidarietà umana documentata da gesti di amicizia e condivisione, un’epopea di assistenza all’uomo malato, una dignità della risposta scientifica che nobilita il tentativo dell’uomo.
«Nella morte sono esposto alla violenza assoluta, all’omicidio nella notte» scrive Emmanuel Lévinas. La sofferenza non ha nulla di bello, e non potrà averlo mai. Ma bisogna riconoscere che anche il concetto di bello ha subito una revisione profonda con l’avvento della cultura cristiana. La figura di Cristo, sofferente e morto in croce, ha nobilitato la sofferenza stessa e la morte, tanto da renderla oggetto di rappresentazione artistica. La cultura europea, e a maggior ragione l’arte, ha ripetuto per anni l’affermazione di Platone che “il bello è splendore del vero”. Dunque, anche la condizione più umile, meschina e drammatica può essere sorgente di stupore e bellezza, quando documenti l’ergersi imponente di un accento di valore e dignità assoluta. Così, in epoca medievale, nasce la percezione di un nuovo compito per la medicina: contribuire a dar testimonianza alla perfezione del mondo attraverso l’amore all’imperfezione dell’uomo, che ha in sé un valore assoluto che né malattia né morte possono intaccare. E l’arte dà visibilità a questa consapevolezza, ristabilendo il legame originario tra agire e conoscere.