Eutanasia e suicidio assistito sono temi ormai all’ordine del giorno del dibattito pubblico e ogni caso di cronaca a essi legato rilancia con forza incalzante l’istanza di affrontare l’argomento anche dal punto di vista legislativo. I due schieramenti contrapposti (pro o contro la legalizzazione) sembrano parlare lingue diverse, con il risultato che un confronto approfondito e costruttivo sull’argomento non comincia nemmeno. Urge allora trovare la chiave per uscire dal conflitto sterile ed entrare in una relazione proficua che porti a ragionare nell’interesse di tutti: insomma lavorare per quella ‘cultura dell’incontro’ finalizzata al bene comune, che un tema così delicato come il fine vita – per definizione riguardante proprio tutti – richiede. Per riuscirci, come insegna papa Francesco, è necessario adottare lo sguardo dell’altro. L’approccio di «Catholic Voices» suggerisce di cercare l’intenzione positiva di chi abbiamo di fronte, ossia quel valore cristiano che viene sostenuto spesso inconsciamente, e di parlare innanzitutto a questo valore. Innestiamo così un circolo virtuoso: creiamo empatia, ci smarchiamo dalla cornice che ci ingabbia, otteniamo disponibilità all’ascolto e possiamo quindi mostrare ciò che di vero, buono e bello contiene la proposta cristiana.
La crescente domanda di leggi sull’eutanasia e sul suicidio assistito è frutto dell’etica dell’autonomia (dove l’autodeterminazione è assoluta, l’individualismo esasperato, l’io non conosce limiti) e della paura della morte. Ma chi la sostiene fa appello all’intenzione positiva di risparmiare sofferenze inutili alle persone. Se non parliamo subito a questa intenzione, il dialogo si chiude prima ancora di cominciare. Esordire ad esempio dicendo che la vita appartiene solo a Dio non fa altro che rafforzare la cornice secondo la quale i cattolici pretendono di imporre la propria opinione e intralciano la volontà di chi desidera alleviare le sofferenze proprie e dei propri cari. Proviamo piuttosto a rivolgerci all’intenzione positiva, concordando sul fatto che nessun essere umano debba essere condannato a soffrire: tant’è vero che la Chiesa da sempre sostiene e promuove le cure palliative, che offrono una vera alternativa alla persona malata, permettendole di non soffrire ma anche di lasciare questa vita con autentica dignità, circondata da affetto e umanità. E chiediamo: non sarebbe preferibile per tutti vivere in una società che in caso di grave malattia ci dà questa possibilità, anziché quella di togliercidi mezzo? Solo dopo aver stabilito che su questo punto ci intendiamo possiamo parlare degli effetti che legalizzare certe pratiche produrrebbe, del rischio di una deriva etica, dell’illusione dell’autonomia in una cultura che ci condiziona su ogni cosa, di come si corrompe il rapporto medico- paziente, e così via. In questo modo avremo permesso un dialogo più razionale e costruttivo, visto che non avremo attaccato quel valore morale fondamentale dell’altro ma parlato a esso, riaffermandolo. Anzi, avremo capito che spesso la posizione della Chiesa viene criticata perché percepita antitetica a quel valore e avremo quindi la possibilità di vedere e far vedere che il quadro è ben diverso.
(di Martina Pastorelli / Avvenire)