I casi di suicidio assistito sono in aumento. Secondo i dati analizzati dall’Ufficio federale di statistica, nel 2014 sono stati registrati in Svizzera 742 casi, il 26% in più rispetto all’anno precedente e due volte e mezza in più rispetto al 2009. La maggioranza delle persone che hanno ricorso a questa pratica, il 94%, era di età superiore ai 55 anni.
Molte volte, anche sulle pagine di questo giornale, si è parlato del valore – ormai universalmente riconosciuto – delle cure palliative e alla solida alternativa che esse danno nella lotta al dolore, per esempio. Ma allora perché questa triste tendenza non si arresta? Ne abbiamo parlato con lo psicologo e psicoterapeuta Dante Balbo.
In Svizzera, è stato l’1,2% dei deceduti domiciliati ad aver posto fine ai propri giorni ricorrendo al suicido assistito. Tra il 2010 e il 2014, la quota maggiore di ricorso all’eutanasia volontaria, ovvero l’1,4% dei decessi, è stata riscontrata tra i residenti nel Canton Zurigo. Tra i Cantoni che presentano cifre superiori a quelli della media nazionale figurano pure Ginevra (1,3%), Neuchâtel (1,2%) e Appenzello Esterno (1,1%). Nei Cantoni Uri e Appenzello Interno non c’è stato alcun caso. Il Ticino rimane al di sotto della media nazionale piazzandosi quartultimo con lo 0,2% dei decessi.
Con Dante Balbo ci siamo chiesti se la popolazione, nel momento in cui prende una decisione drastica come quella di ricorrere al suicidio assistito, sia effettivamente cosciente delle alternative offerte al giorno d’oggi. Secondo Balbo lo è: c’è tuttavia un problema di incapacità di gestire l’attesa. Il suicidio assistito, spiega, rappresenta una risposta immediata, che ci evita lo sforzo di pensare a quel “lungo termine” che talvolta spaventa. «Immaginarsi un tempo, nel futuro, in cui non sappiamo se sopravviveremo alle cure è sicuramente più difficile».
In linea di massima sono gli over 55 a ricorrere a questa pratica e, ad una certa età, oltre a diventare più fragili nel corpo, spesso si diventa più insicuri anche nello spirito. «L’anziano sta perdendo la consapevolezza della propria funzione e sovente pensa di non aver più niente da dare ma di essere piuttosto un peso per i propri cari e per la società», spiega lo psicologo, che continua dicendo: «Il mondo del lavoro e la società incoraggiano questo atteggiamento visto che più difficilmente assumono persone sopra una determinata età, nonostante l’accresciuta esperienza, perché fiscalmente non conviene».
Si monetizza il ruolo della persona, ha argomentato Balbo, tralasciando la sua funzione nella memoria, nella tradizione, nella cultura, nell’unità familiare. Le persone tendono ad assumere il ruolo che gli viene attribuito e, se l’entourage, il luogo di lavoro, la famiglia, la società ci fanno sentire inutili, di riflesso, è questa l’immagine che avremo di noi stessi.
Una volta dato il giusto valore alle cure palliative, ci siamo tuttavia accorti che ancora non bastano per arginare la tendenza al ricorso al suicidio assistito, in continuo aumento. Come possiamo quindi reagire e colmare queste lacune che persistono?
«Bisogna lavorare sull’inclusione sociale e non dimenticarsi che tutti siamo utili e necessari per quello che siamo». Inoltre, dobbiamo considerare i nostri limiti al fine di riscoprire noi stessi, continua lo psicologo ricordando che, così come le malattie, anche la solitudine e l’insicurezza vengono amplificate durante la terza età. «Quando si invecchia, si è per forza confrontati con i prorpi limiti, le fragilità, le vulnerabilità. Farlo anche da giovani, invece di credersi onnipotenti, aiuta a meglio affrontarlo più avanti».