«Sei felice?» «Sì». È questa la vera notizia del recente lavoro pubblicato sulla rivista scientifica “Plos Biology”, dove si dà conto di una nuova tecnica con cui, per la prima volta, è stato possibile interrogare quattro persone nello stato di «completa locked in», cioè totalmente paralizzate, tanto da non poter muovere neppure gli occhi e quindi impossibilitate a comunicare, ma al tempo stesso ancora vigili e coscienti.
Lo studio è stato proposto da un’équipe internazionale, a cui partecipa anche personale dell’Irccs San Camillo di Venezia: gli studiosi hanno messo a punto una nuova interfaccia computer-cervello che sfrutta la misurazione della concentrazione dell’ossigeno nel sangue mediante spettroscopia funzionale nel vicino Infrarosso, in modo non invasivo, cioè con “sensori” esterni al cranio. Questa nuova metodica ha aperto per la prima volta un canale di comunicazione con persone la cui condizione appare come il peggiore degli incubi: lo stato in cui si trovano è l’esito finale della Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), una terribile patologia degenerativa che compromette progressivamente ogni movimento del corpo, ma non la mente.
I pazienti oggetto di studio sono tre donne e un uomo, di 24, 68, 76 e 61 anni, nell’impossibilità di comunicare alcunché da diversi anni (dal gennaio 2015 la persona più giovane, dal 2010 quella malata da più tempo). La più anziana ha pure una degenerazione visiva per problemi alla cornea, dal 2013.
Condizioni terribili, nelle quali, ovviamente, nessuno vorrebbe ritrovarsi né vedere i propri cari. Ed è spontaneo e naturale chiedersi “che vita sia questa?”, e quanto e “se valga la pena” vivere così, e poi magari si continua nel ragionamento e si conclude che sarebbe meglio farla finita anziché spendere soldi, tempo, risorse umane, tecniche, economiche, per persone in tali condizioni, per continuare una vita che non sembra più vita. E molto probabilmente così avrebbero detto anche i malati di cui stiamo parlando, se interrogati quando stavano bene. Ma alla domanda: «Sei felice?», hanno risposto «Sì». Lo hanno fatto adesso. E quando l’operatore ha detto «Io amo vivere», anche in quel caso hanno concordato.
Nell’articolo, in particolare, viene spiegato che tranne la più giovane, che ha potuto rispondere solo alla metà delle domande, gli altri tre pazienti «alle domande aperte contenenti un giudizio sulla qualità della vita hanno risposto ripetutamente con “sì”, indicando un’attitudine positiva verso la situazione presente e verso la vita in generale, come riportato in campioni più ampi di pazienti colpiti dalla Sclerosi laterale amiotrofica», e seguono, per ulteriore approfondimento, indicazioni bibliografiche di articoli su riviste scientifiche internazionali.
Per esempio dal titolo “Può valer la pena vivere la vita con la sindrome locked in” (Lulé et al. Prog. Brain Res. 2009; 177(C): 339-51), di cui consigliamo vivamente la lettura. Evidentemente le percezioni e i sentimenti sono diversi, prima e durante le malattie. Condizioni terribili viste dal di fuori non lo sono più se le vivi in prima persona, o – meglio – ancora lo sono, ma portano a conclusioni differenti da quelle che, ragionevolmente, ciascuno di noi si aspetterebbe. Perché? Anche questo andrà approfondito e compreso, magari proprio grazie alle nuove possibilità di comunicazione che si stanno aprendo. Ma intanto, qualche indizio c’è. Oltre la patologia mortale, i quattro malati descritti nello studio di “Plos Biology” hanno in comune la ventilazione e la nutrizione artificiale, e, soprattutto la home care: stanno cioè a casa, custoditi dalle loro famiglie, pienamente coinvolte nell’esperimento degli studiosi.
Non sono soli, non sono ospedalizzati. Combattono la loro battaglia insieme ai propri cari, con cui, peraltro, condividono tutta la vita (in un caso, su suggerimento della famiglia, i ricercatori hanno chiesto al paziente se fosse d’accordo che sua figlia sposasse il fidanzato, Mario, e la risposta è stata decisamente “no”). E se fosse la scienza più sofisticata a confermarci un sapere antico: che vale sempre la pena vivere, quando si sente di essere importanti per qualcuno, quando ci si sente amati?
(Assuntina Morresi / Avvenire)