Congelerei uno dei miei figli già nati? La risposta è “no” . Allora perché se piccolo “sì”? Perché produrre 12 embrioni se non me la sento di dare la vita a 12 figli?
di Linda Leidi, ginecologa
Da 30 anni mi occupo di gravidanza e di parto. Sono partita da una vocazione professionale alla cura e volevo investirmi in una specializzazione in medicina interna, poi mi sono trovata in attesa del mio primo figlio che ha scelto proprio me per venire al mondo! Per fortuna non esistono i test prenatali per madri: non sono sicura che, nel mio caso avrebbero dato (e che darebbero) un risultato confacente: ero tutta nei libri e nella teoria.
Attraverso il fascino profondo verso questa esperienza di accoglienza gratuita di un figlio ancora sconosciuto che si costruisce dentro il corpo senza bisogno di partecipazione mentale alcuna è nato il mio desiderio di moltiplicare l’esperienza personale e professionale in questo campo.
Questo fascino resiste all’usura del tempo: ho visto nascere migliaia di bambini e ho visto i miei cambiare ogni giorno ed affrontare la vita nel bene e nel male, in ogni caso, non secondo un progetto che io avevo costruito su di loro. In libertà: gioie e dolori.
Quando aspettavo il primo figlio ho vissuto vicino a Paola, una mia cara amica che era in attesa di Angelo: alla fine dell’ottavo mese aveva saputo che il suo bambino non avrebbe avuto la possibilità di vivere per un problema di reni e polmoni disfunzionali. Alla proposta di indurre il parto per porre fine alla gravidanza lei ha risposto che finché poteva tenerlo in vita dentro di lei l’avrebbe fatto: quella era la sua unica possibilità di conoscerlo e curarlo, di fargli da mamma.
La sua scelta mi ha convinto e mi ha accompagnato in tutti questi anni di lavoro nei quali ho incontrato tante persone che di fronte a problemi prenatali hanno fatto scelte simili o anche completamente diverse.
L’interruzione di una gravidanza lascia sempre una storia incompiuta e mi sembra veramente importante, per quanto riguarda test diagnostici e scelte di cura, applicare nel pre e nel postnatale gli stessi criteri di scelta. Per esempio io salterei in un congelatore? Oppure congelerei uno dei miei figli già nati? La risposta è “no” per me e penso per tutti. Allora perché se piccolo “sì”? Perché produrre 12 embrioni se non me la sento di dare la vita a 12 figli? Per scegliere i migliori? Con che criterio? Con i figli già nati lo faccio? Ne scelgo solo alcuni e mi libero degli altri?
I test di diagnosi pre-impianto su cui possiamo votare propongono una “chirurgia dell’embrione” cioè un vero e proprio intervento chirurgico pericoloso per prelevarne una parte, una amputazione: il campione prelevato viene esaminato per stabilire la composizione dei suoi cromosomi non in vista del suo bene ma di una sua eventuale soppressione in caso di difetti. Viene trattato come una cosa, consultarlo non si può. Questi mini bambini nelle mani sospettose del biologo hanno il ruolo di “capro espiatorio” della nostra società.
Su di loro riversiamo tutte le nostre inquietudini e preoccupazioni circa la felicità nostra e dei nostri nascituri: quelli un po’ malati vengono distrutti “per il bene di tutti”. Mi riferisco in particolare alla diagnosi prenatale della “trisomia 21” (sindrome di Down o Mongolismo) che rassicura tantissimo ma che di fatto non garantisce, se è negativa, che il bambino in arrivo sarà sano, intelligente, felice e simpatico come tutti noi desideriamo.
Se il corpo materno è il luogo dell’inizio della vita, è in questo terreno che va coltivato indisturbato l’embrione: luogo di accoglienza incondizionata e non di controllo. Questa parola “controllo” esprime una idea dominante nella nostra società ma è di fatto una illusione. Cosa controlliamo in realtà? Neanche l’attimo presente. Eppure già alla adolescente ragazzina non si parla del fascino, del mistero e della responsabilità di dare la vita, ma di “controllo” delle nascite.
Non dobbiamo vivere nella paura, Dobbiamo muoverci per un bene e non per un “controllo”. La possibilità di dare la vita è grande, ma più grande ancora il compito di custodia della vita che, ancora invisibile, incarna già una persona altra da me, il mio prossimo, che non esiste solo se l’ho pensato e desiderato e se corrisponde al mio ideale.
Viviamo in una società che ha votato al 60% la “soluzione dei termini”, dunque la possibilità di abortire un bambino fino a 12 settimane senza condizione alcuna. Figuriamoci se non sarà quasi unanime la scelta di sopprimere questa piccola vita invisibile se presenta problemi già visibili!
Questa corrente di pensiero è molto forte, quasi irresistibile, perché ha una sua logica: per resistere e porre dei gesti diversi (non può essere un’azione buona quella di porre fine alla vita di un altro perché è malato), bisogna accettare che anche il malato ha un posto importante nella società e costruire un contesto culturale dove si possa fare esperienza che tutto, ma veramente “tutto concorre al bene” anche ciò che capita a ognuno di noi nella vita prima o poi, di imprevisto, doloroso e difficile.