In vista delle votazioni federali del 5 giugno, abbiamo approfittato per parlare di uno dei temi in voto – la diagnosi preimpianto (presentata sul GdP del 13 maggio) – con una professionista, la cui storia personale, la porta ad essere particolarmente toccata dalla questione. Antonella Veronesi è medico chirurgo e lavora a Lugano, è sposata e mamma di Nathan, un bambino di otto anni affetto da trisomia 21 (o sindrome di Down) ed è anche presidentessa dell’Associazione Down Universe.
Da medico, cosa pensa lei della diagnosi preimpianto?
Attualmente, una donna che non riesce a rimanere incinta in modo naturale attraversa diverse fasi per riuscire a diventare mamma. Ossia, le vengono prelevati e fecondati al massimo tre ovuli e questi embrioni vengono tutti e tre poi inseriti dell’utero della donna. A questo punto, solo a gravidanza iniziata e con l’esame dell’amniocentesi, c’è la possibilità di scoprire se il feto è malato oppure no. Questa diagnosi, invece, permette di sviluppare anche dodici embrioni sui quali fare test che diagnostichino la presenza di malattie genetiche o cromosomiche prima dell’impianto di un embrione sano nell’utero. Da medico, sostengo che questo sia un importante passo avanti perché permette di evitare grandi sofferenze ai futuri genitori. Tuttavia, non bisogna dimenticare che questi test offrono anche la possibilità di individuare quelle che nella nuova legge vengono definite malattie gravi ma tra le quali figurano anche problemi motori, dipendenza da apparecchi di assistenza, limitazioni cognitive, malattie psichiche oppure se l’embrione è portatore della sindrome di Down.
Ciò cosa implica a suo parere?
Umanamente, questo non può non farci riflettere. È vero che la selezione del sesso del bambino o del suo aspetto continueranno ad essere vietate, ma se non mettiamo dei paletti ben definiti, rischiamo proprio questa deriva. Ciò non vuol dire chiudere le porte al progresso, che è fondamentale per l’evoluzione dell’uomo. Ma il progresso e il lavoro del medico hanno lo scopo di migliorare la vita, esserne un inno. E questo concerne tutte le vite, non solo quelle perfette.
Concerne anche, per esempio, le persone con la sindrome di Down…
Certo. Nessuno dice che sia una passeggiata, e lo sostengo con cognizione di causa: oltre alla trisomia 21, mio figlio Nathan ha anche una grave malformazione cardiaca. È una situazione che richiede organizzazione e sacrifici. Questo però non impedisce a Nathan di vivere una vita dignitosa e felice, di giocare e andare a scuola, interagire con tutti gli altri bambini che hanno imparato a conoscerne le specificità. A volte ci dimentichiamo che, se il progresso migliora la qualità delle vite “già perfette”, migliora anche – e di molto – quelle che la società non ritiene tali. Pochi decenni fa, questo bambino sarebbe stato destinato a morire, oggi gioca felice.
La deriva di cui parlavamo prima rischia di portarci ad una società che non capisce più e giudica i genitori che accettano di crescere figli con esigenze particolari, che si sobbarcano anche la sofferenza che accompagna queste situazioni, e questo non è il progresso di cui abbiamo bisogno. A mio parere, questo sta in parte già succedendo, perché per rendersi conto dei passi in avanti e della qualità di vita di queste persone, basterebbe frequentarle e interagire con loro. Cosa già oggi difficile dal momento che per tutta la vita frequentano scuole speciali e istituti appositi.