Presso la sala conferenze del Civico di Lugano, giovedì 10 novembre, si è tenuto un dibattito sul tema della cura spirituale negli ospedali. L’importante appuntamento, promosso dal Forum per il dialogo interreligioso ed interculturale svizzero, con un tema così vicino all’umanità e all’esperienza ospedaliera ha radunato un folto pubblico.

Ivan Cinesi, presidente dell’Associazione di cure palliative, ha ricordato come le cure palliative siano il metodo attivo e globale prestato al paziente quando la malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la guarigione. In questo contesto il controllo del dolore e degli altri sintomi assume importanza primaria insieme al prendersi cura dei problemi psicologici, sociali e spirituali.

L’Europen Association for Palliative Care così si esprime in un documento: «Le cure palliative hanno carattere interdisciplinare e coinvolgono il paziente, la sua famiglia e la comunità in generale. Offrono una presa in carico del paziente che si preoccupa di garantire i bisogni più elementari, ovunque egli si trovi, a casa o in ospedale». E ancora: «Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine». La filosofia dell’approccio palliativo considera quindi la morte come un processo naturale, offre sollievo dalla sofferenza, integra gli aspetti psicologici e spirituali delle cure, aiuta il paziente a vivere più attivamente sino alla morte, supporta le famiglie nel far fronte alla malattia e al lutto.

Fra’ Michele Ravetta, assistente sociale che opera nel settore di fine vita, ed è pure religioso e sacerdote, insiste sulla distinzione fra cappellano ed assistente sociale. Quando parla del malato, ricorda che la persona che vive e che muore è la più grande maestra di vita, una vita che è unica ed irripetibile in questa forma. Non ci sono parole: «Sono tanatofilo, amo la morte perché amo la vita», afferma fra’ Michele. «Non serve fare le teorie …».

L’esperienza dell’accompagnamento è la miglior maestra. «Fare l’assistente spirituale stanca – ha precisato fra’ Michele – perché la morte stanca, la sofferenza stanca, la faccia da morto disarma. Allo IOSI sono stati assunti due assistenti spirituali laici (ex sacerdoti) per 7 letti, in quanto si tratta di 7 storie, 7 famiglie allargate, 7 situazioni differenti e delicate. Il Cantone in cui viviamo è cattolico ma solo sulla carta. Finché queste strutture permettono la presenza di persone straordinarie per l’accompagnamento, uomini o donne, occorre marcar presenza, professionalità».

Assistere significa essere presente, non fare chissà cosa. Da qui nasce la relazione senza essere solamente spettatori. Occorre esserci. Il cappellano non può avere attività accessorie impegnative al di là di questo compito. Occorre formarsi e non dare nulla per scontato. Non si nasce assistenti sociali o cappellani. Il motto per tutti è l’adagio latino “memento mori!”, ossia guarda gli altri, interiorizza, impara e vedi.

Gli operatori timbrano, entrano ed escono; i pazienti rimangono e i familiari stanno al capezzale. Forse si potrà anche parlare di religione ed assistere ai miracoli di fine corsa, ma la religione non è la priorità. Dopo la morte inizia il lutto. E non sempre. Talvolta inizia anche prima. L’assistente spirituale raccoglie i pezzettini di sofferenza e dolore e tenta di metterli assieme, dopo questa vita che non c’è più. L’assistente spirituale va quindi oltre. Le lezioni più belle vengono dagli ammalati che siedono in cattedra, la sede dell’esperienza e della vita. Incontrare l’ammalato significa incontrare quel Dio in cui si crede. E occorre la fedeltà. Se si manca alla fedeltà dell’ammalato, si perde un’occasione.

Fra’ Michele cita un frammento di testo de “Il Piccolo Principe” dello scrittore e pilota francese Saint-Exupéry: «Occorre preparare il cuore per l’incontro. Ci vogliono i riti». Infatti anche l’assistente sociale ha una sua impronta spirituale, in quanto, dice Ravetta, «la spiritualità è la mia vita in relazione alla tua».  L’assistente spirituale laico formato Alfredo Villa parte da un concetto di trinità minore, dove l’uomo incontra l’uomo ed è in relazione con Dio, sempre. La sua è una prospettiva diversa, considerando sempre Dio nel suo operare, pur senza forzatamente arrivare al proselitismo. Per Villa non c’è distinzione fra assistente sociale e cappellano; laicità e spiritualità oscillano a seconda della situazione di malattia. «Posso fare l’assistente laico credendo in Dio, – afferma Villa – senza perdere la mia identità e traendo forza dal mio credo». La sua trilogia riposa in tre termini chiave: dono, perdono ed abbandono. Anche Alfredo Villa manifesta l’imperativo di doversi formare e di non lasciare nulla al caso, in quanto l’accompagnamento avviene prima, durante e dopo il lutto; a questa stregua a stento basta un tempo pieno.

Dal pubblico molte sono le domande che sono state scaturite, ma in generale ciò che è emerso è stato che occorre evitare di religiosizzare, ossia battezzare tutte le forme di spiritualità, convinti comunque del fatto che la spiritualità, volente o nolente, è un bisogno di ogni persona.

(Don Rolando Leo / GdP)