Nato in Messico il primo bambino concepito col patrimonio genetico di un papà, una mamma portatrice di una malattia genetica e di una seconda donna che invece ne è priva. Interrogativi scientifici ed etici.

Papà, mamma e donatrice di Dna “sano”. L’esperimento inglese per concepire figli privi del difetto genetico della madre era noto, ma ora la rivista «New Scientist» annuncia che in Messico – Paese privo di una regolamentazione della materia – è nato il primo bambino concepito grazie alla tecnica della sostituzione dei mitocondri malati nell’ovocita della madre con materiale genetico di una donna sana. Il bambino si chiama Abrahim Hassan, è figlio di una coppia giordana nella quale la donna è portatrice della sindrome di Leigh, e ha cinque mesi. A concepirlo è stata l’équipe di John Zhang, che opera a New York. Di sindrome di Leigh, malattia neurologica rara, erano morti due figli della coppia. La tecnica del triplice Dna non ha riscontri su esseri umani, e dunque nessuno scienziato può dire se il difetto genetico è scomparso oppure tornerà a manifestarsi, nella sua forma conosciuta o attraverso altre anomalie, come già accadde nei primi test falliti negli anni Novanta. L’annuncio dei test di laboratorio inglesi, autorizzati dall’Hfea – l’ente pubblico che vigila sulla fecondazione assistita e la ricerca sugli embrioni, di fatto accogliendo qualunque richiesta di manipolazione –, mesi fa aveva suscitato aspettative che si ritrovano ora nei primi echi globali alla notizia che giunge dal Messico. Un clima di ottimismo che fa perno sulle comprensibili speranze di chi convive con una malattia genetica dalla quale vorrebbe liberati i propri figli ma che omette qualunque doverosa e prudente considerazione sugli effetti a lungo termine di questo test. Una parte della scienza mostra infatti di non sapersi fermare di fronte alla manomissione della vita umana e di non considerare quel principio di precauzione che invece viene considerato insuperabile in molti altri ambiti. Non si può escludere infatti che il bambino col Dna “multiplo” possa essere portatore di varianti o difetti genetici oggi ignoti che si manifesteranno più avanti e che verranno trasmessi alla sua progenie, in combinazioni imprevedibili e fuori controllo. Il solo modo per verificare se questo timore è infondato è mettere al mondo bambini “manipolati“, una pratica che eticamente si giudica da sé. Il “figlio di tre genitori” rilancia quindi, e in modo lancinante. la questione del limite che la ricerca deve sapersi dare quando giunge sulla soglia della vita umana. Rispettarne l’integrità, agire per curarla senza intervenire nella sua stessa natura, dovrebbe essere un dovere indiscutibile della ricerca scientifica e della medicina, che invece sembrano anteporre la fattibilità tecnica a qualunque altro criterio di giudizio, nel nome della liberazione da malattie inguaribili. Pensare la vita umana come materia biologica a disposizione, al pari di qualunque altra forma vivente, è a ben vedere il frutto della lunga sequenza di strappi e fughe in avanti di cui siamo stati negli ultimi anni preoccupati testimoni.

(Francesco Ognibene / Avvenire)