Grazie agli sviluppi della medicina, i disabili vivono sempre più a lungo. E sono sempre di più. Come accompagnare nell’invecchiamento un disabile? Come rispondere ai suoi desideri e alle sue necessità? E di riflesso, come vivere noi per primi questo non sempre semplice aspetto della vita che è l’avanzare dell’età? Di questo, e di molto altro, parla il libro “Chiamatemi Giuseppe!”, recentemente pubblicato dalla Fondazione San Gottardo. Ne abbiamo parlato con Patrizia Solari, autrice assieme a Rita Pezzati.
Signora Solari, iniziamo dal principio: come mai questo titolo?
Il titolo nasce dall’esperienza diretta nella relazione con uno degli ospiti più anziani che attualmente vivono nella Casa don Orione, a Lopagno. Una mattina, quando gli è stato chiesto il suo nome, dopo aver risposto per una vita intera “Pepp” o “Peppin” ha risposto “Giuseppe”. Gli educatori, piuttosto colpiti, gli hanno chiesto conferma: «Ma sei sicuro?». La risposta è stata lapidaria: «Sì, chiamatemi Giuseppe!». Cosa significa questo? Che senso ha questa ripresa di identità? Da qui è partita una lunga riflessione, sia nel centro diurno che Giueppe frequentava sia nel foyer dove abitava, perché questo per gli educatori è stato un punto di svolta. Una presa di coscienza, una consapevolezza di come vanno guardate le persone. Per anni si è lavorato sugli obiettivi di autonomia, ritenendo che fosse questa la cosa più importante per rendere la persona realmente se stessa, ma poi l’invecchiamento – che per forza di cose questa autonomia la riduce – fa sorgere mille interrogativi. Sulle persone che si accompagnano ma anche su se stessi. Come guardarci nel passare del tempo e nei cambiamenti? E come mantenere l’identità della persona? Ecco che allora, l’intuizione che sin dai primi anni della nostra esperienza come Fondazione ci ha accompagnati è parsa a tutti immediatamente ancora più evidente: la persona viene prima dell’handicap, prima del suo limite, prima del suo bisogno.
“Dall’autonomia all’essere in relazione”. Questo è uno dei temi principali del vostro libro. Cosa significa, questo, riguardo all’invecchiamento dei disabili?
Proseguendo nel nostro lavoro e nelle nostre riflessioni, ci siamo resi conto che guardare seriamente una persona significa prendere in considerazione la sua essenza vera, ossia il suo essere in relazione. Nell’accompagnamento di persone disabili che invecchiano, questo comporta il riflettere sugli spazi da offrire per sviluppare queste relazioni, per migliorarne la qualità (nell’accoglienza, nell’ascolto, ecc.). Significa capire – come ci ha detto anche il Papa – che immedesimarsi nelle persone vuol dire comprendere qual è il loro desiderio prima ancora che il loro bisogno. Questo, per gli educatori, è un cambiamento di paradigma. Perché, come dicevo prima, in generale la psicopedagogia ha sempre insistito sull’obiettivo di autonomia. Invece così cambia tutto.
Grazie alla dipendenza che per forza di cose c’è nell’invecchiamento (nei disabili ancora più che nelle persone normodotate) ci troviamo “costretti” a riscoprire l’essenza della persona, che è la sua possibilità e la sua capacità di rapportarsi con gli altri.
“Chiamatemi Giuseppe!” arriva, par di capire, alla fine di un lungo percorso di riflessione.
È proprio così. L’esigenza, o la curiosità, di approfondire questo tema è nata nel 2009, quando come Fondazione San Gottardo abbiamo assunto la gestione della Casa don Orione, dove c’erano parecchie persone che stavano vivendo la fase dell’invecchiamento.
Questo ha suscitato in noi una prima domanda, di metodo: è necessario modificare qualcosa nelle nostre modalità educative? Come rispondere alle esigenze di queste persone? Da queste domande è partito tutto il lavoro, che cammin facendo ha coinvolto anche la dottoressa Pezzati e il Dipartimento Sanità della SUPSI.
Un lavoro che, per tutto l’arco di questi anni, ha sempre preso spunto dalle esperienze concrete degli educatori dei nostri centri (prima della Casa don Orione, poi della Casa al Cedro), interrogandoci su mille questioni e paragonando poi sempre il tutto con ciò che la letteratura in merito già diceva. L’esito è stato questo libro.
Un libro che è anche uno strumento di lavoro. Cosa intendete fare ora?
Come dicevamo già nella serata pubblica di mercoledì, la prospettiva è quella di rilanciare il tutto come lavoro con chi ci sta. Cominciando in casa nostra, nella Fondazione San Gottardo, aggiornando tutto quello che da anni facciamo. Ma poi aprendoci a tutti quelli che sono interessati. Perché se è vero che siamo partiti dal tema dell’invecchiamento delle persone disabili, è altresì vero che poi nel confrontarci gli uni con gli altri sono uscite altre tematiche che valgono in generale: quella dell’identità, dell’essere accolto, dell’essere riconosciuto, del poter esplorare qualcosa di nuovo partendo da un’appartenenza e da una sicurezza che ci rende stabili. Questo libro, quindi, non è rivolto solo agli addetti ai lavori. Sarebbe bello che finisse in mano anche a molta altra gente. Anche perché i disabili, è vero, hanno delle necessità che magari altri non anno. Però l’accoglienza dell’altro – dell’amico, del genitore, del figlio, della moglie, del marito, del collega – è uguale per tutti.
(Gregorio Schira / Giornale del Popolo)