La ricerca della perfezione rischia di diventare disumana. La storia ci mostra che l’imperfezione genera e testimonia amore che alimenta il coraggio e la speranza.
«Cos’abbiamo noi più di loro? Arti un po’ meglio finiti, un po’ più di proporzione nell’aspetto, capacità di coordinare un po’ meglio le sensazioni in pensieri. Poca cosa rispetto al molto che né noi né loro si riesce a fare e a sapere». Rileggendo Italo Calvino, non ho potuto fare a meno di annotare queste sue parole nei giorni in cui i giornali hanno dedicato qualche riga alla storia di Luca. Chi è Luca? Un bambino. Un bambino affetto dalla sindrome di Down.
I genitori, una volta appresa questa triste verità, avrebbero potuto ricorrere all’aborto. Hanno invece preferito andare avanti, farlo venire alla luce (è nato qualche giorno fa all’ospedale di Bari) e affidarlo ad un’altra famiglia che potesse prendersi cura di lui e volergli bene.
C’è, in questa vicenda, una doppia lettura. Da una parte, il trionfo della vita, comunque. Dall’altro, le incertezze di un padre e di una madre. Coraggiosi fino a far nascere il figlio, non abbastanza da accompagnarlo per mano nel tempo che lo attende. Non è una colpa, la loro.
Lo è per il mondo che abbiamo costruito, nel quale la paura di non riuscire a far fronte alla fatica obiettiva di farsi carico di un bambino disabile e del suo futuro è frutto di una società che sull’idea di un uomo macchina efficiente ha basato un’ideologia spietatamente selettiva, formando esseri umani che non si reputano in grado di affrontare un problema poiché temono di restare soli davanti a un compito che appare immane, mentre contemporaneamente ve ne sono altri che non possono generare, ma che sono consapevoli che la vita è più forte e più bella di ogni umanissima e giustificabile paura.
Il nodo etico è rilevante: alla vista di corpi tormentati dall’handicap, sentiamo spesso imbarazzo e viviamo stati d’animo inattesi, quasi fuor di logica. Inespressa, ma sottintesa, s’avverte anche l’intima soddisfazione di essere, come si suol dire, normali, e per questo quasi giustificati a insuperbirsi e spesso ad ergersi quasi a re del creato. In questo modo di pensare – e agire – v’è però la rimozione di un dato, banale quanto fondamentale: basta il piccolo scarto cellulare di una ghiandola per annientare chiunque.
Con la sua potenza la natura sovrasta tutti alla stessa maniera. Insomma, i segreti custoditi nella realtà sono tali e tanti da superare infinitamente le nostre facoltà mentali. «Siamo tutti mendicanti», affermava a ragione Lutero, e questo è alla fine ciò che accomuna le persone sane e quelle affette da disabilità, tutte bisognose della comprensione reciproca e della grazia, del dono e del sostegno divino.
Per questo, allora, dare spazio civile alla possibilità di non opporsi alla nascita di un bambino disabile, facendolo venire al mondo sia pure per affidarlo all’affetto di altri genitori, sarebbe comunque una piccola, vera rivoluzione: saper accogliere a braccia aperte e non porre dal primo istante un’asticella di perfezione fisica da superare diventerebbe il segno di una cultura in cui a prevalere non sarebbe più il dominio incontrastato della tecnica e della scienza anche nella gravidanza, per scovare il difetto e rifiutare il bimbo come se si trattasse di merce avariata, ma la capacità di accogliere chi chiede il rispetto di un diritto semplice, prezioso, essenziale: vivere.
(Vincenzo Bertolone / Zenit)