“La malade” di de La Fresnaye apre l’esposizione “l’abbraccio del Pallium” in un percorso che unisce le Madonne della Misericordia e la storia della fondatrice degli Hospice, Cicely Saunders.

La mostra è esposta alla “Casa Pasquee” in via Madonna della Salute 14 a Massagno, dal 10 al 25 febbraio 2017. Si può visitare dal lunedì al venerdì dalle 17 alle 19; il sabato e la domenica dalle 14 alle 17. Per visite di gruppo guidate fuori da questi orari scrivere a: dinamonn@gmail.com.

A Massagno si può visitare una mostra che dal desiderio di capire cosa realmente domanda la mano tesa di “La malade” di Roger de La Fresnaye e quale sia la vera risposta a quella domanda, ci introduce ad un percorso sulla cura, in particolare sulle cure palliative e la storia della loro fondatrice, Cicely Saunders (Barnet, 22 giugno 1918 – South London, 14 luglio 2005). “L’Abbraccio del Pallium”, così si intitola l’esposizione realizzata in occasione del Meeting di Rimini da Medicina e Persona, viene proposta dalla Parrocchia di Massagno a “Casa Pasquee” (via Madonna della Salute 14, Massagno) dal 10 al 25 febbraio 2017. Abbiamo raggiunto la dottoressa Paola Marenco, vice presidente dell’Associazione Medicina e Persona, (e che ha avviato e diretto fino al 2015 il Centro Trapianti Midollo dell’Ospedale Niguarda, a Milano), che di questa esposizione a pannelli è curatrice insieme al dr. Giorgio Bordin medico e direttore sanitario dell’Hospital Piccole Figlie e Centro cure palliative di Parma.

Dottoressa Marenco, perché c’è bisogno di una mostra per suscitare domande profonde sul senso della cura e in particolare sul valore delle cure palliative?

Ho l’esperienza di 1500 trapianti, ho seguito tantissimi pazienti leucemici, quindi so cosa vuol dire affrontare i drammi che scelte e decisioni in questi ambiti comportano, ed ho potuto conoscere anche la profondità della domanda di questi malati. Insieme all’amico dr. Bordin, che aveva già lavorato sulla preziosa iconografia delle Madonne della Misericordia (rivestite dal “pallium”, manto sotto il quale trovano rifugio e protezione principi, poveri, confratelli e il pittore stesso, o anche l’intera città provata dalla peste e dal quale deriva anche il termine “palliative”) lo scorso anno, in occasione del Giubileo della Misericordia, ci siamo chiesti cosa avesse da offrire di positivo la nostra esperienza di medici rispetto alla misericordia e alla cura, in particolare in questo momento in cui in Italia si apre il dibattito legislativo sul fine vita e sulle dichiarazioni anticipate. Non si tratta solo delle cure palliative, ma di queste come paradigma di ogni relazione di cura. Così abbiamo incontrato e riscoperto la straordinaria vita di Cicely Saunders, questa donna britannica prima infermiera, poi assistente sociale, poi medico, fondatrice degli Hospice, e l’abbiamo raccontata nella mostra. La Saunders a partire dall’esperienza di un ventennio di vita accanto ai malati, crea il movimento degli hospice che oggi sono in tutto il mondo. L’idea che ci ha animati è stata quella di riflettere insieme su che cosa occorra per prendersi veramente cura di una persona, che si sia parenti o operatori sanitari.

I valori della vostra riflessione come possono arrivare ai tanti che lavorano accanto ai pazienti in corsia, dunque al personale sanitario?

La prima parte della mostra, dopo l’introduzione, si chiede quali siano le origini della cura. Un conto, infatti, è la medicina, che come ogni scienza è nata dal desiderio di conoscere, un conto è invece curare che implica, prima di tutto, amore al destino dell’altro. In un’epoca in cui le grandi evidenze sono cadute si percepisce un disagio tra chi lavora nella sanità: l’operatore sanitario è tenuto a dare la sua “prestazione” in un tempo richiesto, sollecitato anche da orari ristretti; rischia di non fare l’esperienza della soddisfazione che nasce da un rapporto con la persona che si ha davanti. Per questo la mostra inizia con il quadro di Roger de La Fresnaye.
La mano tesa del dipinto rivolta verso lo spettatore ci fa intuire come il significato del quadro cambia completamente in base alla risposta che chi guarda dà a quella mano. Il contesto in cui viviamo oggi facilmente ci chiede di dare risposte tecniche, magari guardando più il computer che il malato negli occhi. Questo modo di fare però lascia una grande insoddisfazione sia in chi è curato che in chi cura. Infatti non basta. La professione sanitaria è troppo ardua e faticosa se non si trova qualcosa per se stessi, un compimento. L’idea della mostra è quella di mettere sul tavolo il cammino al compimento di sé nella relazione con l’altro. Anche nella mia esperienza è così: attraverso i gesti professionali richiesti, il dono per me, per il mio cammino è la ricchezza umana che trovo nell’uomo che incontro in un momento così particolare e intenso quale è la malattia. L’io si compie in un tu. Questo credo che oggi vada ridetto, perché fa respirare chi lavora nella sanità.

In che modo questo approccio globale riguarda le cure palliative?

Oggi anche tra chi valorizza il lavoro delle cure palliative c’è la tendenza a voler separare la dimensione della cura fisica e psichica dalle domande esistenziali, mentre se io voglio rispondere veramente alla mano tesa dell’ammalato, devo tenere conto che è tutto l’uomo che soffre: la sofferenza è fisica, psichica, sociale ma anche esistenziale (è questo il “total pain” di Cicely). Oggi invece c’è la tendenza a ridurre la dimensione esistenziale a qualcosa di “spirituale”, che poi viene interpretato come emozione, sentimento. Ma è una riduzione: invece tutti si pongono la domanda: «Perché mi è venuta questa malattia? Che senso può avere?». L’esposizione mostra che prendersi cura dell’altro dentro questa prospettiva globale, è meglio: sia per chi cura, sia per chi è curato.

Questo non potrebbe sembrare un obiettivo molto alto davanti, ad esempio, allo stress che spesso si incontra nei reparti, con il personale che deve correre magari per l’urgenza di un altro paziente? Insomma, ci sono tante condizionamenti che limitano gli ideali…

Nella mia esperienza ho visto che quando esiste una relazione tra chi cura e chi è curato, normalmente anche dentro situazioni di stress lavorativo, il malato si rende conto positivamente della situazione difficile dell’operatore sanitario. Mi è capitato di entrare in stanze di pazienti che stavano veramente male e sentirmi chiedere da loro «dottoressa come sta lei oggi?». Nel senso che i pazienti comprendono il tuo lavoro, capiscono le urgenze. Quindi, un conflitto che potrebbe esserci, viene ridotto se c’è una reale relazione. Mentre, sempre a partire dalla mia esperienza, ho visto che il conflitto sussiste quando è sentita come mancante la relazione tra curante e paziente. Educare alla relazione oggi non è scontato e diventa un lavoro quotidiano con i colleghi, con le infermiere, con gli specializzandi. Ma se un giovane medico fa l’esperienza che guardare l’altro per prendersene cura conviene, allora capisce che tra lui e il paziente non c’è differenza: siamo uomini con le stesse domande davanti alla vita e alla morte, alla gioia e al dolore e se non le accogliamo non curiamo bene neanche tecnicamente quella particolare persona che abbiamo di fronte.

Oggi la medicina è evoluta moltissimo, la vita delle persone si è allungata, emergono sempre di più delle situazioni sanitarie complesse, talvolta causate anche dalla scienza stessa. Voi che domande vi ponete davanti a tutto questo?

La mostra, verso la fine, dice che le sfide sanitarie di oggi non sono certamente quelle dell’epoca di Cicely Saunders che aveva solo 2 farmaci antineoplastici. Ma oggi per non tradire Cicely dobbiamo custodirne la posizione originale: quella attenzione alla persona che ha fatto stare questa donna per 20 anni a guardare qual era la situazione del malato di allora, prima di decidere come realizzare l’Hospice. Dunque è come se oggi la Saunders ci chiedesse di non avere paura delle nuove sfide, a patto di guardarle caso per caso e all’interno del rapporto di cui dicevo prima: la relazione di cura che coinvolge il medico, la famiglia, il paziente con i suoi desideri e ciò a cui tiene. Noi medici siamo abituati alle scelte, perché dobbiamo scegliere tutti i giorni, non solo davanti alla fine della vita: la decisione ad esempio di proporre ad un leucemico una terza linea di cure, quando c’è solo un 10% di speranza e la prospettiva di costi altissimi in termini non solo economici, va valutata guardando il più possibile al bene della persona. Ben consapevoli che certe scelte restano comunque drammatiche. Ci vuole una grande, umile apertura. Ma ciò che facilita è farle all’interno di una relazione medico-paziente preesistente, altrimenti, estrapolate da quel contesto, elementi estranei diventano determinanti: il peso dell’economia, il peso della nostra incapacità a starci davanti, il peso della depressione del paziente o della fatica della famiglia ecc… . In 40 anni solo 2 persone mi hanno chiesto l’eutanasia e tutte e due hanno cambiato parere dopo un breve colloquio cercato in questa umana relazione di cura. In un mondo impaurito perché ha sempre meno legami, la relazione di cura è un legame e prezioso!

(GdP)