Ancora una volta le storie umane, di grande sofferenza e dolore, ci pongono di fronte a riflessioni importanti sul valore della vita e sul suo significato, sul perché si decida di intraprendere determinati percorsi. Quando si è colpiti da una malattia, una grave disabilità, qualunque essa sia, a prima vista pare impossibile se non insensato coniugarla con il concetto di salute. Ancora di più se si tratta di malattie rare, poco conosciute e di cui, allo stato attuale, non si conoscono terapie efficaci per guarirle, oppure di una patologia oncologica né chemio sensibile, né radio sensibile e neppure proponibile per un approccio chirurgico.
A volte, però, può succedere che una malattia o una grave disabilità che mortifica e limita il corpo, anche in maniera molto evidente, possa rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza la possibilità di alternative. Perché la malattia può davvero disegnare, nel bene e nel male, una linea incancellabile nel percorso di vita di una persona. O, ancora meglio, edificare una serie di Colonne d’Ercole superate le quali ci è impossibile tornare indietro, ma se lo si vuole, ci è ancora consentito di guardare avanti. Ed è proprio questo il nocciolo della questione. Quando si ha la fortuna di conservare intatte e inalterate le proprie capacità cognitive, è comunque possibile pensare a ciò che è possibile fare piuttosto che a quello a cui non si è più in grado di ottemperare. Se si ragiona in questi termini, la malattia può davvero diventare una forma di salute. È salutare perché permette di sentirsi ancora utili per se stessi e per gli altri, incominciando dai propri famigliari per proseguire con gli amici ed i colleghi di lavoro.
Ed è salutare perché aiuta a rendersi conto che nella vita non bisogna dare nulla per scontato, neppure bere un bicchiere d’acqua senza soffocare. A volte siamo così concentrati su noi stessi che non ci accorgiamo della bellezza delle persone e della cose che abbiamo intorno da anni, magari da sempre. Così, quando è la malattia a fermarti bruscamente, può accadere che la propria scala di valori cambi. E che ci si renda conto che quelli che noi, fino a quel momento, consideravamo i più importanti invece non erano proprio così meritevoli dei primi posti. In questi tempi in cui si parla sempre più, con scarsa chiarezza, di ‘diritto alla morte’, del principio di autodeterminazione, di autonomia del paziente, si deve lavorare concretamente sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano che deve essere il punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la malattia e la disabilità non siano o non diventino criteri di discriminazione sociale e di emarginazione. Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico.
Questo è un compito prezioso che conferma il senso della nostra professione medica, non esaurito dall’eliminazione del danno biologico. La medicina, i servizi sociosanitari e, più in generale, la società, forniscono quotidianamente delle risposte ai differenti problemi posti dal dolore e dalla sofferenza: risposte che vanno e devono essere implementate e potenziate e che sono l’esplicita negazione dell’eutanasia, del suicidio assistito e di ogni forma di abbandono terapeutico. Noi medici, gli operatori sanitari in generale, le Istituzioni stesse, abbiamo questa grandissima fortuna: quella di poterci rapportare e relazionarci con l’essere umano che soffre, ma che può e riesce a trasmetterci e a insegnare molto. Non si possono o si devono creare le condizioni per l’abbandono di tanti malati e delle loro famiglie. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Si tratta di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive una condizione di malattia, questa idea, infatti, aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società, e favorisce decisioni rinunciatarie. Ciò che manca è una reale presa in carico del malato, la corretta informazione sulla malattia e sulle sue problematiche, la comunicazione personalizzata con la condivisione familiare per poter ‘spianare’ il percorso della consapevolezza per poter facilitare e applicare concretamente le decisioni condivise durante la progressione della malattia. Non si può chiedere a nessuno di uccidere. Una civiltà non si può costruire su un simile falso presupposto.
Perché l’amore vero non uccide e non chiede di morire. È necessario aprire una concreta discussione su che cosa si stia facendo per evitare l’emarginazione delle persone con gravi patologie invalidanti e su quanto realmente, al momento attuale, si sta investendo nel percorso medico, di continuità assistenziale domiciliare e di cultura della salute e delle problematiche legate alle patologie disabilitanti e alla disabilità in senso lato, chiedendosi con molta sincerità se proprio dalla mancanza sempre più evidente di assistenza domiciliare qualificata, supporto adeguato alla famiglia, reti di servizi sociali e sanitari organizzati, solidarietà, coinvolgimento e sensibilità da parte dell’opinione pubblica scaturiscano quelle condizioni di sofferenza e di abbandono a causa delle quali alcuni malati chiedono di porre fine alla propria vita.
Dovremmo essere anche noi medici a contribuire, insieme alle Istituzioni, a rinsaldare nel nostro Paese la certezza che ognuno riceverà trattamenti, cure e sostegni adeguati. Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno. La Costituzione italiana, tutte le leggi vigenti in Italia, il nostro Codice di deontologia medica, oltre alla Convenzioni sui diritti dell’uomo e la Convenzione sui diritti e la dignità delle persone con disabilità, affermano la dignità di tutti e il diritto all’accesso alle cure. Ecco perché penso che un corpo malato può portare salute all’anima, rendendola più forte più tenace, più determinata, più disponibile a buttarsi con tutta sé stessa in quello che si vuole. L’urgenza dettata da uno stato patologico può diventare uno stimolo enorme per raggiungere traguardi considerati impensabili e apparentemente preclusi nella ‘vita precedente’. E faccio tesoro di quanto scritto da Stephen Hawking: «Ricordatevi di guardare le stelle e non i vostri piedi… Per quanto difficile possa essere la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare, e in cui si può riuscire». La malattia non porta via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di comprendere che l’«essere» conta di più del «fare». Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità fa brillare maggiormente l’anima, ovvero il luogo in cui sono presenti le chiavi che possono aprire, in qualunque momento, la via per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita. In tutto questo la speranza che definisco come quel sentimento confortante che provo quando vedo con l’occhio della mia mente quel percorso che mi può condurre a una condizione migliore, diventa il mio strumento di vita quotidiana.
(dr. med. Mario Melazzini, Avvenire)