Il direttore scientifico dell’ospedale Bambino Gesù di Roma sul caso del neonato londinese: a volte necessario rassegnarsi all’impotenza della medicina.
«Bisogna distinguere l’utilità dell’intervento medico dall’accanimento terapeutico. E la stessa morale cattolica non favorisce di certo l’accanimento. Di fronte ad un quadro di una malattia molto grave, progressiva, ingestibile, è necessario fare una profonda riflessione, ma poi si deve giungere ad una conclusione». Per il professore Bruno Dallapiccola, genetista di fama internazionale, direttore scientifico dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, non ci sono ideologie dietro il caso del piccolo Charlie Gard: «Credo che non si sia lasciato nulla di intentato e che la soluzione adottata sia quella maggiormente giustificata».
La vicenda del bambino inglese ha sconvolto l’opinione pubblica, c’è chi parla di “delitto di Stato” e sui social si moltiplicano gli appelli al grido di “Don’t kill Charlie!”. Da medico, e da medico cattolico, qual è secondo lei l’aspetto più difficile di questa storia?
«Premetto che la medicina deve essere impegnata per la vita e difenderla fino all’ultimo, ma in questo caso, quello di una malattia che noi medici definiamo “letale”, bisogna riuscire a distinguere le effettive ricadute di ogni intervento medico, da ogni azione che potrebbe configurare un accanimento terapeutico. Il 30% delle 7-8mila malattie rare non consente al bambino di superare il quinto anno di vita e in questi casi c’è un intervallo di tempo per accertare la diagnosi e stabilire la presa in carico più appropriata. Nel caso di Charlie, affetto da una patologia che dal punto di vista cerebrale e respiratorio era fin dalla nascita drammatica, in quanto lo ha privato delle funzioni vitali fondamentali, il medico deve utilizzare tutte le risorse disponibili comprese quelle meccaniche per tenerlo in vita. Una volta accertata la diagnosi e stabilità l’ineluttabilità della condizione, deve rassegnarsi all’impotenza della medicina e prendere una decisione certamente drammatica, esattamente come si fa con il neonato anencefalo che nasce vitale».
Quindi hanno ragione i medici londinesi?
«Io non conosco a fondo i dettagli del caso, ma credo che i colleghi del Great Ormond Hospital, eccellenza pediatrica a livello Europeo, siano arrivati a porsi lo stesso quesito che ci poniamo noi davanti ai bambini con gravi malattie cromosomiche affetti da cardiopatie complesse: ha senso o non ha senso effettuare un intervento chirurgico? Ho letto che da febbraio era stata proposta l’interruzione della ventilazione meccanica, perciò suppongo che, accertata la diagnosi, i medici avessero ben chiaro che non esisteva alcuna soluzione per la malattia. Si è andati avanti probabilmente per assecondare il desiderio dei genitori che non si rassegnavano a perdere il loro bambino».
Ecco, proprio i genitori. Crede che sia stata calpestata la loro volontà?
«Anzitutto voglio dire che da quanto ho letto si tratta di una famiglia stupenda. Immagino, però, che in questa vicenda possa essere insorto un problema di fondo, che purtroppo non è raro nella medicina moderna, cioè la mancanza di chiarezza e di approfondita comunicazione tra i medici e i familiari. Oggi la medicina ha fretta e raramente i professionisti dedicano una-due ore a spiegare nel dettaglio le cose come stanno, le difficoltà che esistono, i tentativi fatti e che si possono fare a fronte di una diagnosi che dice chiaramente fino a che punto si può andare avanti. Tutto questo ci ricorda che in queste tragedie non ci sono solo gli aspetti medici del piccolo paziente, ma anche la tragedia che vivono in prima persona la mamma ed il papà».
Cosa pensa di questa cura sperimentale individuata dai Gard negli Usa?
«Non so di cosa si tratta, ma posso dire per certo che ci sono centri negli Stati Uniti che utilizzano le cellule staminali, in terapie non validate, per malattie dove non c’è nessuna evidenza che possano funzionare. Mi chiedo davvero cosa avesse potuto fare una cura “sperimentale” in un soggetto in cui sono inesorabilmente colpite miliardi di cellule in organi vitali. Ritengo si potesse trattare di una “terapia” cellulare piuttosto che farmacologica. Ripeto, in questa situazione oggi, e purtroppo ancora per anni, non disporremo di terapie minimamente efficaci».
La provoco: visto il destino ineluttabile di questo bambino, non sarebbe meglio fargli trascorrere le ultime ore di vita nella sua stanza, con i suoi parenti, piuttosto che in un letto d’ospedale?
«Sono d’accordo. Non conosco gli estremi della sentenza ma la medicina, anche quella di fine vita, non può non mettere al centro il paziente, con accanto la sua famiglia; deve avere rispetto dei valori fondamentali e creare quel contorno ideale che consente ai genitori di dare fino in fondo l’amore possibile al loro bambino».
(Salvatore Cernuzio / Vatican Insider)