Il mondo si è fermato a discutere sul destino del neonato inglese. Un caso su cui sono necessari discrezione e rispetto. E che interroga la nostra concezione della vita. Cosa la rende utile? E perché vale la pena di essere vissuta?

Mentre stiamo vivendo alcuni giorni di vacanza tra amici con i quali si cerca di giudicare tutto quello che accade nelle giornate passate tra gite, giochi, incontri e testimonianze, siamo investiti dalla vicenda di Charlie Gard e della sua famiglia, che sta scuotendo il mondo intero. Ci vengono immediatamente alcuni spunti di riflessione che vogliamo condividere.

Col passare delle ore, appare sempre più evidente che nessuno riesce a dare elementi conclusivi per chiarire definitivamente la questione di fondo: davanti ad una malattia degenerativa multiorgano per la quale, considerata l’attuale situazione del paziente e le conoscenze mediche disponibili, sono previste solo cure palliative, fino a che punto è giusto insistere nel protrarre la situazione, con tutto il suo carico di speranze e dolore senza scivolare nell’accanimento terapeutico? Per questo occorre non dimenticare che è necessaria una prudenza, una discrezione e un rispetto nel guardare dentro questa vicenda. Ma la vicenda pone questioni che raschiano in profondità.

Se fossimo noi l’artefice di tutte le cose, mettendoci al posto di Dio, non permetteremmo che tutto questo avvenisse. Non permetteremmo questa sofferenza, di Charlie, della madre e del padre, dei medici e infermieri che lo hanno in cura, non permetteremmo la confusione che si sta generando intorno a questi fatti, non permetteremmo che possano esistere malattie incurabili, in definitiva non permetteremmo alcun orrore col quale la vita a volte si trova a fare i conti. Tuttavia, tutto questo c’è. Questo significa che Dio non ragiona sempre come noi e che la realtà è più larga di come la faremmo. Forse Chi fa essere la realtà ci sta suggerendo di provare a guardare dove non guardiamo, di non limitarci a posizionarci su che cosa sia più giusto o più sbagliato fare per concludere al meglio questa triste storia. Perché Dio permette il dolore e la sofferenza? Questa è la domanda delle domande… Questa domanda fa male. Alla mentalità del mondo, che volenti o nolenti ci troviamo addosso, è insopportabile. In fondo, l’unico vero bene sembra essere l’eliminazione, o almeno la possibile riduzione, del dolore. Ma questo sarebbe vero se il dolore e la sofferenza non avessero alcun significato, se fossero per nulla. Invece, quando c’è un significato che sostiene la vita, il dolore può essere portato e la sofferenza può costruire un’umanità nuova e a volte più “vera”, come vediamo nel modo con cui tanti portano prove più grandi di loro, testimoniando una pienezza di vita, una dignità e ultimamente una profonda letizia, che chi non desidererebbe per se? Quello che sta accadendo forse ci chiede di entrare un po’ più in profondità nella concezione che abbiamo dell’utilità del vivere, smascherando la nostra incapacità di rispondervi a riguardo della nostra stessa vita: quando una vita è “utile”? Cosa la rende utile e, soprattutto, utile per chi? Ci basta vivere per noi stessi? Ci basta non soffrire? Ma, in fondo, è veramente possibile non soffrire? Per non soffrire occorrerebbe non amare.

Nel giudizio sulla vicenda di Charlie si mette spesso a tema quale sia il suo bene. Ma proprio questo bene può essere slegato dal riconoscimento, così poco evidente ai nostri occhi, del significato, e quindi dell’utilità, di questa vita?

C’è qualcuno che lo vuole e lo ama così com’è, ora, e per questo è disposto a sacrificarsi. Non può essere che per questo bambino la sua vita, ora, sia sentita utile per questo, e per questo degna di essere vissuta in questo modo? Cosa lo rende profondamente umano nel suo desiderio di felicità, esattamente come noi che stiamo scrivendo? Quello che desideriamo noi, quello per cui la nostra vita merita di essere vissuta è che c’è qualcuno che ci vuole ora, per cui la nostra vita vale, per il quale merita di essere data e vissuta come ci viene data. I genitori di Charlie sono questo, e in questo loro amore sono la promessa vivente di quell’amore per cui il suo cuore, piccolo e malandato, sta ancora battendo.

(Davide Prosperi e Fabio Corsi, CL)