L’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (ASSM) si attribuisce il ruolo di mediatore fra la scienza e la società. Nell’ambito dell’ASSM è stata costituita una Commissione Centrale di Etica (CCE) che da anni emana delle direttive medico-etiche in molti campi fra cui la cura dei pazienti dementi, la diagnosi della morte, l’accompagnamento in fin di vita, … Proprio queste ultime direttive sono state recentemente riviste integralmente (il primo testo risale al 2004 ed era stato aggiornato nel 2014).

L’Associazione Medicina e Persona ha preso conoscenza con interesse delle nuove direttive medico-etiche (“Attitude face à la fin de vie et à la mort”). Abbiamo molto apprezzato l’equilibrio e l’accuratezza del testo che, come altri documenti emanati dall’ASSM, si conferma rispettoso della pluralità delle visioni etico-culturali degli operatori socio-sanitari e tiene in grande considerazione il principio dell’autodeterminazione del paziente, il suo contesto socio-affettivo, la qualità di vita e la sofferenza.

Considerazioni di aspetto generale

Ci permettiamo cortesemente di considerare il testo, come detto, ben bilanciato ma in pari tempo anche un po’ distaccato, quasi che non volesse favorire una maggiore prossimità con il paziente in fin di vita per un costante accompagnamento e una sincera condivisione della sofferenza. Si tratta del fenomeno culturale della spersonalizzazione delle cure che è sorto nel corso degli ultimi decenni, in concomitanza con una maggiore professionalità e specializzazione, quasi che si volesse favorire una distanza dal paziente cronico e terminale per impedire un coinvolgimento personale: una sorta di auto-protezione del curante. Ma se la malattia interroga la coscienza del malato, altrettanto fa con la coscienza del curante per l’umano che ci accomuna tutti: la dimensione personale e relazionale della vita induce, infatti, al coinvolgimento del curante da cui può nascere quell’empatia che favorisce fiducia e affidamento, così importanti nella cura e nell’accompagnamento in fin di vita a salvaguardia della dignità del malato.

La cultura odierna secolarizzata tende giustamente a controllare la sofferenza ma l’eccesso del controllo può indurre a voler padroneggiare anche la morte, con il rischio di spingere il desiderio del suicidio assistito quando la fine diviene ineluttabile. Invece, occorre riconoscere al processo della morte un’opportunità di apertura e di crescita che affronta la verità profonda della vita, processo favorito in un ambiente terapeutico ove vigono relazioni personalizzate. È esperienza comune che in questo clima relazionale la dignità del malato è maggiormente custodita: il paziente si apre al medico e in genere all’équipe curante, facilitando in questo modo una migliore capacità diagnostica e terapeutica. La moderna medicina ospedaliera, molto professionale ma spesso spersonalizzata, ostacola involontariamente il processo di maturazione dell’umanità insita in ogni paziente sofferente, e in special modo nel malato terminale.

Da ultimo solo un’etica della prossimità responsabile evita l’accanimento terapeutico, quale attivismo sproporzionato, e l’abbandono terapeutico, quale fuga alla relazione di cura: atteggiamenti entrambi inadeguati a fronte della domanda del paziente. Se da una parte è vero che il malato terminale deve fare lui stesso il proprio cammino esistenziale, affrontandolo secondo le possibilità concesse dalla malattia e dalle sue circostanze di vita, d’altra parte egli pone a chi lo assiste e a tutte le persone che entrano in rapporto con lui una domanda di aiuto e di cura, fino all’inevitabile domanda sul significato di ciò che gli accade. E per stare di fronte alla sofferenza degli uomini occorre mettersi in gioco personalmente: e affinché la cura sia adeguata è necessario che la medicina non dimentichi il livello dell’umano che emerge nell’esperienza del dolore e della morte. Infatti, è l’esperienza stessa, che quotidianamente facciamo come curanti, che ci mostra e insegna che il giusto rispetto dell’autonomia della persona/malato richiede ai curanti un maggiore e più puntuale coinvolgimento; l’alternativa è la fuga/abbandono della persona/malato.

Considerazioni puntuali

Ci preme evidenziare due punti critici nelle presenti direttive medico-etiche. Si tratta di due modifiche importanti, che emergono confrontando la versione precedente (2004, con adattamento del 2013) con il testo attualmente in consultazione.

1) il campo d’applicazione è stato allargato, passando da malati terminali (morte prevedibile “nello spazio di qualche giorno o settimana”) all’inclusione di due altri gruppi ovvero i pazienti con malattie “molto probabilmente mortali” e le persone stanche di vivere (chiamati “pazienti” che desiderano un atto medico per porre fine alla loro vita). Si tratta di una modifica radicale con conseguenze così profonde che non può, a nostro parere, venire introdotta senza argomentazione e commento. Di fatto, che lo si voglia oppure no, questa estensione del campo di applicazione facilita e “ufficializza” il ricorso al suicidio con assistenza medica anche da parte di persone sane. In questa situazione, il principio della non maleficenza non dovrebbe prevalere su quello della autonomia?
Va poi detto, a questo riguardo, che le sei condizioni preliminari (elencate a pag. 17) che devono essere riunite e soddisfatte per giustificare il coinvolgimento di un medico in un suicidio assistito ci sembrano incompatibili con l’inclusione del campo d’applicazione del secondo e terzo gruppo di persone citato sopra. E’ necessario (e valutiamo come molto positivo) elencare con precisione queste condizioni, dato che la cronaca e le statistiche da anni mostrano una crescita numerica del fenomeno (in netto contrasto con la stabilizzazione del numero totale dei suicidi) e nessun medico può rallegrarsi che sempre più persone -malate e non- decidano di uccidersi. Proponiamo perciò di mantenere le condizioni elencate, come contributo medico alla “non-banalizzazione” del fenomeno, ma di abolire i cambiamenti del campo d’applicazione tornando alla versione del 2004.

2) Nella versione attuale è stata stralciata l’affermazione della versione precedente 2004 “l’assistenza al suicidio non fa parte dell’attività medica, poiché è contraria agli obiettivi della medicina”. La definizione del ruolo del medico nel testo attuale al cap. 6.2.1. è più ambigua: l’assistenza al suicidio sembra essere diventato un atto medico, ma di un tipo che non può essere preteso dai pazienti. Che cosa ha fatto cambiare la natura dell’atto in sé? Se finora non faceva parte dell’attività medica, ma secondo le attuali direttive dovrebbe iniziare a farne parte, un testo di riferimento bioetico dovrebbe dare le ragioni di tale cambiamento. Tanto più che ripetutamente i sondaggi hanno mostrato che i medici, sia quelli contrari che favorevoli al principio del suicidio assistito, sono in grande maggioranza contrari a eseguirlo in prima persona. Il sentimento comune dei curanti a questo riguardo conferma che il suicidio assistito contrasta con gli obiettivi della medicina.

In conclusione ci sentiamo di proporre che una riflessione sull’etica della prossimità debba trovar spazio nel capitolo 3 (“Entretien sur la fin de vie et la mort”) e ribadita dei capitoli 4 e 5 (“Attitude face aux désirs de mourir” e “Processus décisionnels”). Inoltre, desideriamo che anche la versione attuale limiti il campo di applicazione del suicidio assistito ai malati terminali e che sia ribadito che l’assistenza al suicidio non fa parte dell’attività medica.

Dr. Med. Claudio Foletti / Presidente M&P