La drammatica vicenda di Alfie Evans, il bambino gravemente malato che – contro il fermissimo volere della famiglia – giudici britannici e medici dell’Alder Hey Hospital di Liverpool hanno deciso di far morire, sta avendo un effetto che profuma di miracolo. E non mi riferisco, in questo caso, all’esito che la storia potrà avere. Penso piuttosto a tutto quello che sta provocando in ognuno di noi. O almeno in tutti coloro (e sono tanti) che sono disposti a farsi toccare il cuore. Non in modo sentimentale o superficiale, ma struggente, concreto. Perché in un mondo che ci invita a non pensare a nulla, a non porci troppi interrogativi, a preferire il quieto vivere, testimonianze come quella di Alfie e dei suoi genitori irrompono nella nostra vita come un terremoto. Scuotono le nostre esistenze fino a toccare quel punto irriducibile, nel cuore di ognuno di noi, dove – magari assopiti, anestetizzati, chiusi a chiave – albergano i nostri desideri più profondi di bene, di bello, di vero. Di fronte all’evidente ingiustizia di uno Stato che si erge a padrone della nostra vita, davanti all’incredibile lotta di un padre e di una madre (per giunta giovanissimi) che in fondo non chiedono altro che lasciare che il loro pargoletto possa continuare a vivere finché il Signore (e non un giudice o un medico) lo vorrà, e ancor di più di fronte all’audace attaccamento alla vita dello stesso Alfie (che ieri, dopo essere stato staccato dal respiratore che secondo i medici lo teneva in vita, ha continuato a respirare per conto proprio), nessuno può restare indifferente.

Possiamo fingere che la questione non ci riguardi, possiamo soffocare ancora una volta quello che il nostro cuore ci dice (e magari nemmeno rendercene conto), ma se anche solo per un istante ci prendiamo davvero sul serio non possiamo non accorgerci che tutto ciò chiede qualcosa anche a noi. O prima di tutto a noi. Ci chiede di cambiare. Di stravolgere il modo che abbiamo di guardare a noi stessi, alle nostre mogli e ai nostri mariti, ai nostri figli, ai nostri amici. Di porci di fronte a chi abbiamo davanti, fosse anche uno sconosciuto, con la consapevolezza del suo inestimabile e infinito valore. Un valore che va decisamente al di là della sua condizione, della situazione in cui si trova, delle sofferenze che magari deve affrontare. La vicenda di Alfie diventa in questo modo un’occasione preziosa per imparare a lasciar respirare – nei rapporti tra di noi, in famiglia, nel nostro lavoro, nelle fatiche di ogni giorno – quel punto profondo del cuore in cui il nostro vero “Io” attende solo di poter emergere.

(GdP)