Il cuore della natività vive il deserto. Negozi in larga parte chiusi, imposti forti limitazioni agli spostamenti durante la settimana, stop nei week end e mantenimento del coprifuoco notturno dalle 19 alle 6 del mattino. Speciali protocolli da osservare per le liturgie cattoliche, così come per le preghiere nelle moschee. Eppure, anche in questa atmosfera surreale, la vita continua a pulsare, tra le povertà e le malattie.
Celebrazioni contingentate e l’incognita della presenza del Patriarca
Monsignor Pizzaballa, che giorni fa ha annunciato di essere positivo al coronavirus anche se asintomatico, è atteso per la celebrazione della Messa di mezzanotte del 24 dicembre che questa volta – vista la situazione sanitaria dei Territori – avrà alcune particolarità rispetto agli anni passati. Non è prevista, per esempio, la partecipazione del presidente palestinese Abu Mazen, mentre ci saranno i consoli generali a Gerusalemme di Francia, Spagna, Belgio e Italia. I riti avranno inizio il 24 con la tradizionale partenza mattutina da Gerusalemme del patriarca (in caso di impossibilità ci sarà un suo delegato). Prima sosta presso il Monastero ortodosso di Sant’Elia per un incontro con una rappresentanza ridotta della parrocchia di Beit Jala, a poca distanza da Betlemme. Seconda sosta, con le stesse modalità, alla Tomba di Rachele e quindi l’ingresso a Betlemme con la tradizionale accoglienza degli Scout al suono delle cornamuse, del sindaco e dei rappresentanti delle Chiese ortodossa ed armena. A mezzanotte Messa della Vigilia a Santa Caterina con distanziamento e mascherine e il giorno di Natale, nella stessa chiesa, Messa con la parrocchia di Betlemme.
L’impegno per fronteggiare il virus
“C’è un miscuglio di sentimenti che si avvicendano nella quotidianità”, racconta Suor Lucia Corradin, terziara francescana delle Elisabettine, da 18 anni al Caritas Baby Hospital, l’unico ospedale pediatrico della Palestina che coinvolge e forma le madri nella cura dei bambini. Spiega che le messe contingentate provocano una certa sofferenza nei fedeli. Ma sono soprattutto gli effetti collaterali della pandemia a preoccupare già da tempo: la cittadina, solitamente gremita di pellegrini, è pressoché deserta e “le conseguenze della crisi economica, con l’incremento della disoccupazione, si fanno sentire soprattutto per i piccoli artigiani, i gestori degli hotel, tutto l’indotto del turismo”.
“Comunque è tipico della cultura del mondo arabo – precisa la religiosa – il desiderio di lottare per poter vincere anche questa nuova battaglia”. Suor Lucia descrive lo stato di tensione acuito dalla pandemia: “Se facciamo la nostra parte possiamo ridurre i rischi. Bisogna farsi carico dei bambini che possono essere positivi, delle loro famiglie, farsi carico del personale che a volte è contagiato da uno dei membri del nucleo familiare il quale ha potuto contrarre il virus frequentando l’università”. L’attenzione aggiuntiva nel lavoro per far sì che il virus non entri nella struttura sanitaria è massima. “In primavera eravamo uno dei Paesi con minor numero di contagi. Poi con l’estate sono aumentati. C’è ancora chi non si adegua alle norme sanitarie, ma l’opera di sensibilizzazione da parte delle autorità ha favorito una presa di coscienza più diffusa”. Del resto, la Palestina non sarebbe in grado di fronteggiare situazioni che richiederebbero un numero elevato di terapie intensive o personale dedicato: “Non abbiamo le risorse sufficienti. Noi siamo fortunati perché abbiamo la possibilità di fare il tampone sia ai bambini che alle mamme. Qui la maggior parte sono asintomatici o con lieve sintomatologia – spiega – e abbiamo un controllo piuttosto severo internamente per monitorare che tutti gli operatori osservino le regole”.
“Noi possiamo sempre imparare dai bambini”. E’ in sintesi il bagaglio di eredità umana che Suor Lucia ha costruito grazie ad anni di servizio in mezzo ai piccoli pazienti e che conserverà sempre dentro di sé. “La caratteristica del bambino è di voler vivere, gioire della vita, fino in fondo, di sorprendersi, meravigliarsi, di sapersi accontentare anche del più piccolo giocattolo. Noi grandi siamo presi dal voler capire… il bambino invece vive e vuole vivere. Questo è il grande messaggio che i bambini ci offrono tutti i giorni”. E racconta di una famiglia giovane arrivata da Hebron con tre figli, tutti e tre nati con la fibrosi cistica da cui non si guarisce mai completamente. Hanno bisogno di medicine e attrezzature che favoriscano la respirazione. Suor Lucia parla della bellezza del lavoro di squadra fatto per questi bimbi: per far accettare in maniera incondizionata ai genitori la loro condizione, per far in modo che i fratelli si possano aiutare reciprocamente; per far sì che questa famiglia potesse incontrarne altre e apprendere da loro come hanno affrontato situazioni simili. “La cosa bella è che proprio i ragazzi hanno voluto raccontare la loro esperienza ad Aiuto Bambini Betlemme, nata per sostenere e promuovere l’opera del Caritas Baby Hospital di Betlemme”. I ragazzi hanno messo in circolo la speranza. “Sono portatori di vita nella accettazione del limite. Il messaggio di Natale è proprio questo: accogliere la novità che la vita ci offre”.
(Vatican News)